Executive Search & the New Leadership

Il mondo della consulenza ha una nuova missione: il punto di contatto tra business tradizionale e “nuovi ecosistemi professionali”, singoli manager e start-up all'interno di processi.

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Fabio Sola, Senior Partner e Director PRAXI Alliance – Worldwide Executive Search

Come la pandemia ha accelerato la richiesta di nuovi capi

Il network PRAXI Alliance consente ai propri partner di tutti i continenti di confrontarsi sulle tematiche della leadership e di verificare con le aziende clienti i fenomeni osservati. Il 2020 della pandemia e delle videocall ha reso impossibili i tradizionali meeting globali in presenza, ma ha consentito più frequenti aggiornamenti e discussioni. Ciò che affiora è che anche nell’emergenza di oggi i player dell’Executive Search possono contribuire allo sviluppo della classe dirigente e al successo nel business globale.

Il primo take away dei benchmark internazionali è la sempre maggiore prevalenza delle competenze trasversali rispetto al background: in uno scenario in continua evoluzione (anche all’interno di business consolidati, ciò che era vero solo ieri non vale più oggi), la semplice provenienza da contesti simili non garantisce la performance futura. Le soft skills si dimostrano vincenti e il manager di successo è sempre più spesso non corrispondente al profilo ideale che era stato disegnato. Il contributo di una Executive Search firm a tale scopo è duplice: non solo supportare i propri clienti con servizi ad hoc di leadership consulting (executive assessment, onboarding, ecc.), ma anche orientare le tradizionali attività di ricerca verso outsider rispetto al settore dell’azienda, comporre in modo creativo le proprie short list ed aiutare le aziende ad interpretare tali opportunità.

Ovviamente in tutto questo è necessaria una capacità di lettura del business ben al di là del tradizionale patrimonio dell’headhunter (network e capacità di assessment), che consenta di individuare nel candidato executive la capacità di perseguire gli obiettivi aziendali.

La sorpresa più interessante è il punto di vista sui fondi di private equity. Qui per definizione l’orizzonte temporale è più breve, visto che un ciclo di 2-5 anni non consente certo una fase di apprendistato al management team. Il tema della leadership resta però centrale e mette in evidenza la difficoltà estrema che questo mondo ha nell’individuare i CEO per i propri investimenti; ciò vale a maggior ragione in una fase in cui fisiologicamente il periodo di riferimento tende ad allungarsi (in ben pochi settori un’exit nel 2021-2022 potrebbe portare plusvalenze). Anche in questo caso il modello tradizionale (un mix tra il manager dell’azienda competitor, completamente plug & play, e il manager ben conosciuto già testato in sfide simili) è entrato in crisi per l’accresciuta complessità del contesto.

Il processo di cooptazione di manager che hanno avuto successo in passato (talvolta definito know the guy), senza troppi quesiti sull’adeguatezza allo specifico progetto, crea sempre più casi di rigetto. Per contrastare questo fenomeno – che fa spesso perdere i primi 12 mesi – è sempre più frequente l’affiancamento di un soggetto specializzato: sia nella creazione di un pool di manager più mirato rispetto all’esigenza (se non altro per pescare in un network più ampio e per avvalersi di una valutazione professionale) che nell’utilizzo di servizi di executive assessment come second opinion.

Il quesito fondamentale sulle caratteristiche del leader <degli anni 20> mette infine in luce la fiducia come elemento centrale, quella di cui il manager deve godere in virtù dei propri comportamenti, ma soprattutto quella che deve dare ai propri team.

In organizzazioni sempre più globalizzate il lavoro in remoto era già una costante; ma dalla primavera 2020 questa è una realtà che riguarda anche aziende più locali: il modo di gestire team è completamente diverso, la sintonia e il commitment non si basano più su una quotidianità comune, ma su valori condivisi e interscambi rapidi e spesso mediati dalla tecnologia. Molte aziende sono inoltre ricche di persone diverse tra loro (nazionalità, cultura, generazione), che non ci consentono di applicare i consolidati criteri di giudizio (ciò che vale per un cinquantenne italiano è probabilmente molto diverso da quanto è importante per un venticinquenne asiatico). Ovviamente ciò richiede al manager di fidarsi in un modo molto più ampio di quanto non avrebbe fatto in passato (e il periodo del lockdown ha tranquillizzato sul fatto che i manager hanno buone ragioni per fidarsi), ma anche di saper valutare rapidamente il modo in cui gli obiettivi vengono raggiunti e di ritarare costantemente la propria gestione.

Ma tutto questo è ulteriormente acuito dalla digital transformation e dal mondo 4.0. Il capo di una bottega artigiana era quasi sempre il più bravo nello svolgere ciascuna delle attività dei propri collaboratori, mentre il leader di una tradizionale industria non era nella stessa condizione, ma era comunque in grado di comprendere bene tutto il business (dalla produzione, alla vendita, all’amministrazione). Con la quarta rivoluzione industriale tutto cambia: il CEO non solo non conosce, ma molto spesso non capisce l’intelligenza artificiale, la blockchain o semplicemente i social network. Deve invece fidarsi di persone che sovente sono diverse rispetto ai tradizionali criteri (era molto più semplice affidarsi ad un laureato del MIT con 20 anni di esperienza che non ad uno smanettone in felpa).

La sintesi è che il mondo della consulenza ha una nuova missione, che va ben oltre l’individuazione di manager 4.0 (in termini di competenze trasversali molto più che di sensibilità tecnologica). Dev’essere il punto di contatto tra il business tradizionale (global corporation ma anche media azienda impreditoriale) e nuovi ecosistemi professionali, siano essi singoli manager e professional, oppure start-up all’interno di processi di open innovation.

 

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